Decreto Dignità: come muta il licenziamento
Il primo intervento a livello economico del Governo Conte è proprio quello chiamato “Decreto Dignità” che prevede, tra le varie misure, un irrigidimento delle regole sul lavoro nel tentativo di contrastare la precarietà. Al momento il dibattito è ancora molto acceso, con diverse tensioni anche all’interno della maggioranza stessa.
Uno delle principali preoccupazioni riguarda l’impatto sul mondo produttivo a fronte delle forti e numerose critiche dalle imprese dell’artigianato, dell’alimentare, dell’industria, del terziario e dalle Agenzie per il lavoro. Infatti non sarebbero coinvolti esclusivamente i contratti a termine, ma anche quelli a tutele crescenti inseriti all’interno del Jobs Act, rivedendo anche le modalità di licenziamento.
La legge prevede che il licenziamento, nel caso in cui risultasse illegittimo, condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria che non sia soggetta a contribuzione previdenziale con un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio. L’indennità massima passerebbe da 24 a 36 mensilità e la minima da 4 a 6 mensilità.
Ad escludere per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio è stata la legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, alla lett. c) del comma 7 dell’art. 1. Ora il decreto Dignità (articolo 3, come 1) aumenta i valori assoluti dell’indennità risarcitoria, sia nell’importo minimo che in quello massimo.
La reintegrazione resta nell’eventualità in cui il licenziamento risulti ingiustificato.
Il nuovo decreto non interviene sulle indennità previste in caso di licenziamento intimato violando il requisito di motivazione o con un vizio di procedura, per le quali l’importo è pari a una mensilità della retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità.
Restano valide le offerte di conciliazione previste dall’art. 4 del D. Lgs. 23/2015.
La durata dei contratti a termine dunque scende da 36 a 24 mesi con causale obbligatoria solo dopo il rinnovo dopo i primi 12 mesi senza l’obbligo dell’inserimento della clausola. Il rinnovo del contratto per ulteriori 12 mesi andrà giustificato da una delle seguenti ragioni:
- temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive;
- temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive;
- temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive;
I contratti a termine scenderanno da 5 a 4 anni applicando un aumento del costo contributivo di 0,5 punti per ogni rinnovo.
A tal proposito le disposizioni si applicheranno a tutti quei contratti di lavoro a tempo determinato che verranno rinnovati o sottoscritti dopo l’entrata in vigore del decreto.
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